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ottobre122017
“Del momento in cui rientrai in Italia, ricordo il profumo.”
Intervista al sig. Luigi Rossi, IMI di Villasanta
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È così che il sig. Luigi Rossi ricorda la fine della prigionia e l’inizio di una nuova vita: in un’Italia libera, tutta da ricostruire.
Erano passati quasi due anni da quando, dopo l’8 settembre del 1943, data della comunicazione ufficiale dell’armistizio, Luigi divenne un’Internato Militare Italiano.
Luigi nacque il 4 dicembre del 1925 in una famiglia numerosa: 6 figli maschi e 4 femmine. Il padre era titolare di un candeggio e Luigi frequentó le elementari in collegio e poi ragioneria a Monza. Come molti giovani in quegli anni, non ancora diciottenne, fu chiamato alle armi. Fece prima un periodo a Milano e poi fu trasferito a Cremona nel gruppo Genio/telefonia.
Ci racconta come diventó un IMI?
“Un giorno eravamo sull’Appennino per stendere dei fili elettrici, vicino ad Aulla. Ci dissero che dovevamo andare in un teatro in paese e lí, quando si alzó il sipario, comparvero i tedeschi con le mitragliatrici puntate. La sera stessa partimmo per la Germania.
Si partiva sempre la sera, perché di giorno le rotaie servivano per trasportare merci.
Eravamo un sacco di gente e fummo stipati in 6 piccoli vagoni: può immaginare come si stava. Dopo una settimana arrivammo a Kattowitz (in Polonia).
Appena arrivati ci tolsero tutto, anche il nostro nome. Ad ognuno di noi fu assegnato un numero, anzi ognuno di noi diventó un numero. Il mio numero era 5205, bisognava ricordarselo: il nome non esisteva piú.
Qui restai poco tempo, perché era un centro di smistamento. Le aziende si recavano lí per chiedere manodopera. Mi mandarono quindi a lavorare in una miniera di lignite a Gadewitz (tra Lipsia e Dresda). Era una miniera a cielo aperto, enorme e profonda. C’erano solo uomini, nessuna donna. Io dovevo occuparmi della manutenzione insieme ad un gruppo di polacchi. Due di loro mi aiutarono molto. Bisognava essere precisi. La lignite serviva per la corrente. Si lavorava a turni, il primo era 6/18. Prima di andare a lavorare si passava dalla cucina a prendere un pasto, che ci doveva bastare per tutto il giorno. Si trattava di un mestolo di minestra e un pezzo di pane.
Restai lí 4 mesi, poi mi mandarono a Duisburg.
A Duisburg mi occupai di rimettere in sesto lo scalo merci. Dovevo tenere in ordine i binari, fondamentali per i trasporti. Eravamo sistemati in baracche fuori città, ciascuna di 9 metri per 6 e dentro eravamo 20 persone. Il cibo era sempre scarsissimo: un mestolo di brodo, tre fette di pane. A volte un po’ di melassa.
In questo campo eravamo sia uomini che donne. Le donne erano principalmente russe e facevano lo stesso lavoro degli uomini. Gli italiani per la maggior parte venivano dalla Sicilia o dalla Calabria. Io ero il piú giovane di tutti. Dovevamo indossare la divisa che avevamo in italia.”
Ricorda un momento particolare durante la prigionia?
“Si, ricordo bene una volta in cui arrivó il capo del campo e disse di andare nel rifugio perché stavano per bombardare. Quando arrivammo dentro il rifugio, gli altri tedeschi ci guardarono male e noi decidemmo di uscire.
Andammo via perché avevamo ancora la nostra dignità. Loro non conoscevano il significato della dignità, ma noi sì.
Ricordo anche un altro momento durante la prigionia, la notte di Natale.
Non avevamo lavorato e mentre aspettavamo la zuppa, sentii il rombo delle “fortezze volanti” che si scontrarono con i caccia tedeschi. Noi li guardavamo con angoscia, perché nonostante la guerra speravamo che almeno il giorno di Natale avrebbero risparmiato la popolazione dai bombardamenti. Natale non è un giorno qualunque.
A proposito del Natale, ricordo di aver letto il racconto di Carlo Bergonzi, un tenore ex deportato amico di Pavarotti a New York, al quale durante la prigionia la notte di Natale fu dato il permesso di cantare alla messa del campo. Cantó l’Ave Maria di Shubert e il comandante, rimasto colpito dalla sua bravura, gli chiese di andare il giorno dopo a casa sua a cantare per i suoi familiari. Lui, scortato dai militari, andó in quella casa e come ricompensa gli diedero 3 fette di pane…”
Ci racconta di quando riuscí a scappare?
“A Duisburg il fronte era al di là del Reno.
Con l’avanzare degli alleati, gli occupanti dei campi della zona vennero trasferiti all’interno.
In un primo momento ci fecero camminare, ma la distanza era enorme e quindi ci caricarono sui vagoni. La mattina peró avevano bombardato la linea e quindi ci fecero proseguire di nuovo a piedi.
In cielo sopra di noi c’era un velivolo americano che ci vide in divisa e iniziò a bombardare.
Approfittando di questo riuscii a scappare. Pensai di essere da solo e invece la sera incontrai altri 15 compagni, anche loro fuggiti durante i bombardamenti.
Ci ritrovammo in un villaggio in mezzo ai campi.
La prima notte la passammo in una baracca, poi la mattina vidi una grande fattoria e decidemmo di chiedere ospitalità.
Andai io perché un po’ conoscevo la lingua.
I proprietari erano una coppia molto anziana, aiutata nella gestione della campagna da alcune ragazze russe.
I campi erano pieni di buche, cosí spiegai loro che li avremmo aiutati con i lavori piú pesanti in cambio di ospitalità.
Il marito acconsentí, probabilmente perché sentiva i colpi dei liberatori vicini.
L’accordo era di andare la mattina presto nei campi, riempire le buche e la sera rientrare nel fienile per dormire. Non saremmo mai dovuti entrare nella casa fattoria, per farci notare il meno possibile. Le ragazze ci portarono il cibo la mattina e la sera.
Lì restammo circa un mese, era il marzo del 1945.
Il 1’ aprile 1945 sentii un rumore diverso dal solito, era una camionetta con 2 soldati americani.
Ci videro ridotti male, io pesavo 45 kili.
Ci dissero che li vicino a Dorsten (circa 5 km) c’era l’ospedale americano e andammo subito. Lí almeno avremmo dormito su delle brandine.
Il comandante dell’ospedale era un italo-americano, che ci diede il compito di aiutare in cucina. Avevamo sempre 200 kg di patate da sbucciare. Il cibo al campo consisteva in latte, biscotti, pagnotta, scatolette e poco altro.
Vi restammo per circa un mese, perché i russi non volevano lavorare con noi.
Fummo trasferiti in un altro campo guidato da inglesi, lí facemmo conoscenza con i macellai della zona e di notte uccidevamo le vacche del campo e procuravamo il cibo extra cosí.”
Ci racconta il ritorno a casa?
“Pian piano gli Alleati organizzarono il nostro rientro a casa. Ci divisero per nazionalità, noi partimmo in agosto.
Ci diedero un tesserino con il nome, un numero e la diversa destinazione: Italia del nord o Italia del sud.
Alla frontiera, prima di rientrare in italia, ci spruzzarono il ddt per disinfettarci.
Arrivati a Verona, trovammo dei volontari che indirizzavano gli italiani che dovevano andare a nord sui camion e gli italiani diretti al sud sui treni.
C’erano anche dei volontari che davano un piatto di spaghetti.
Ricordo il profumo, il mese di agosto era il momento di maturazione della frutta. Era una sensazione bellissima.
I camion si fermavano nelle città principali, il mio faceva tappa a Milano e da li ne presi un altro per Monza. L’ultimo tratto lo feci a piedi fino a Villasanta.
Un signore in bici mi vide e mi riconobbe. Quindi tornó di corsa indietro e avvisó casa mia.
La mia famiglia non aveva mie notizie dal giorno della cattura. Avevano chiesto anche in Vaticano, ma non avevano ricevuto alcuna risposta. Io non ero mai riuscito a contattare i miei familiari, perché mi avevano trasferito diverse volte.
Quella mattina mi corse incontro tutta la tribú; mancava solo mio fratello Italo, perché era in ospedale a Varenna.
Quindici giorni dopo il mio ritorno arrivó la lettera della Croce Rossa Italiana che annunciava alla mia famiglia la mia morte. Evidentemente era un errore.”
Come riusci a ricostruire la sua vita dopo la guerra?
“Dopo la guerra, fino al 1969, lavorai nell’impresa di famiglia, ma poi andai a lavorare in una impresa chimica. Ho sempre voluto distinguermi, fare bene, imparare ció che non conoscevo. Ho avuto una vita piena. Io e mia moglie ci sposammo nel 1958, il prossimo anno festeggeremo 60 anni di matrimonio. Oggi in famiglia siamo 98. Tutti gli anni abbiamo fatto un viaggio all’estero.
Ho passato dei mesi abbastanza duri da Internato militare, ma me la sono cavata.”
La storia dei militari italiani deportati in Germania è stata per anni dimenticata. Oggi noi sappiamo che furono circa 600mila.
“Si, si inizió a parlare dopo molti anni dalla fine della guerra della deportazione politica, religiosa e degli internati militari.
Ricordo che nel 1995 una signora ebrea di Milano, Snider, disse che capí che era giunto il momento di raccontare la sua storia, perché una amica, vedendo i numeri sul suo braccio, pensó che se li fosse scritti per ricordare qualcosa.
Cosí la signora Snider inizió a raccontare la sua storia..
La condizione dei militari italiani era diversa da quella dai deportati per motivi politici o religiosi etc.
Infatti nel giugno del 44 Mussolini incontró Hitler e definirono i militari “lavoratori coatti”.
Questo pregiudicó la nostra posizione, quando nel 1997 la Germania offrí alle persone che erano state deportate una cifra rilevante come ricompensa. Avremmo dovuto mandare dei documenti che attestassero la nostra presenza nei campi durante la guerra.
Noi mandammo tutta la documentazione all’OIM, che da Roma si trasferi a Ginevra nel 2000.
Loro risposero che i documenti effettivamente confermavano la nostra deportazione, ma in quanto militari italiani il nostro status era di “lavoratori coatti”, non deportati. Quindi non avevamo diritto al risarcimento.
Alcuni fecero ricorso, ma io pensai che sarebbe stato inutile.
Negli anni 90 c’erano piccoli gruppi di ex deportati a Milano che si riunivano, poi si decise di costituire la sezione ANEI a Monza con Carlo Magni e D’Amico, che fu attiva fino al 2010. Usavamo la sede in comune con gli Alpini.”
Il sig.Rossi ha raccontato per anni nelle scuole la sua esperienza ed ha donato il materiale storico raccolto durante la sua vita alla biblioteca di Villasanta, dove il 13 settembre del 2013 venne inaugurato l’archivio storico.
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L'intervista è stata pubblicata anche su Patria Indipendente
Settembre282018
L'ultimo saluto al sig. Luigi Rossi (I.M.I.)
La prima volta che ho incontrato il sig. Luigi Rossi ho provato ammirazione e un profondo rispetto.
VLa sua storia di giovane militare arrestato ed inviato in un campo di concentramento nazista mi affascinava e mi incuriosiva: un giovane di soli 18 anni, addestrato ad obbedire, trovò la forza e il coraggio di disobbedire, di dire NO a chi, in quegli anni, riteneva di decidere il destino dell’umanità. Una scelta che avrebbe cancellato ogni possibilità di rimanere in Italia, la speranza di rivedere la propria casa e i propri famigliari.
Ma “quel NO” toglieva qualunque adesione o riconoscimento all’oppressione, alla violenza e alle lusinghe.
E inconsapevolmente diventò, assieme ad altri 650mila militari italiani, un nuovo fronte di Resistenza per i nazifascisti: “l’altra Resistenza”, come si sarebbe chiamata molto più tardi, ma disarmata, non per questo meno efficace perché sostenuta da una intransigente dignità, umana e militare, nonostante le continue vessazioni cui erano sarebbero stati sottoposti.
Nel dopoguerra “l’altra Resistenza” fu riconosciuta dalla Repubblica italiana solo il 27 dicembre 2006 con la legge n. 296: con essa si riconobbe a titolo di risarcimento soprattutto morale il sacrificio dei propri cittadini deportati ed internati nei lager nazisti, destinati soprattutto al lavoro coatto per l’economia del Terzo Reich, e si autorizzò la concessione loro di una medaglia d’onore.
Negli anni 90 fondò a Villasanta l’Associazione Nazionale ex Internati, condividendo la sede degli Alpini, e incominciò a svolgere nelle scuole, della Provincia MB e di Milano, un’importante e meritoria azione di informazione sulla realtà di quegli anni e in particolare sulla condizione degli Internati Militari italiani, accompagnando di persona, anche più volte nello stesso giorno, i giovani al Museo dell’Internato a Padova, nel quartiere Terranegra, dove sorge la cosiddetta Cittadella della memoria costituita dal Tempio dell'Internato Ignoto, dal Museo dell' Internamento e dal Giardino dei Giusti nel mondo. Il suo impegno durò fino al 2010.
Il suo ultimo desiderio sarebbe stato quello di avere a Villasanta un Archivio Storico dove i giovani, soprattutto i giovani, potessero conoscere e apprendere quei terribili anni dominati dalla barbarie.
La Sezione ANPI di Villasanta dal 2013 ha conferito, annualmente, al sig. Luigi Rossi la Tessera ad Honorem, il più alto riconoscimento in tempo di Pace della nostra Associazione.
Oggi nel giorno del nostro ultimo saluto vogliamo salutarlo alla maniera dei nostri partigiani:
Bella Ciao Luigi, che la terra ti sia lieve, riposa in pace e grazie per tutto quello che hai fatto!
il Presidente, Fulvio Franchini
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